Si è ripetuta ieri due volte la medesima
situazione, o meglio condizione, fatto che credo vada a sottolinearla, a
rimarcarla, visto che una delle due è
successa in sogno, e quindi pare sottoscrivere, aumentare o riprodurre l’esperienza,
in qualche modo dichiararla.
Con lo stato d’animo che dirò alla fine.
La prima condizione (che stamane
riconosco come simile alla successiva, ma che ieri sera faceva solo parte della
catena dell’accadere) è stato quando la Padrona mi ha voluto steso a terra, a
fianco del Suo letto, mentre Lei continuava a leggere, dopo che ho finito di
lavare i piatti, e riassettare la cucina.
Perché questo LE faceva piacere.
E l’esperienza poteva essere non fra le
più felici, anche se l’ho raccolta con gioia. Per poter servire la Padrona. Per
essere se non vicino.. in prossimità di Lei, o quantomeno nella Sua stanza, e perché
questo Le dava piacere.
Per contrappunto, ero stanco ed era
stata una giornata faticosa, l’incontro (“sessione”) con la Padrona era stato
intenso d’emozione, e di bellezza, pur con tutti i miei limiti (il non essere abituato
per niente, e quindi meno che di riprovevole livello, nel sopportare le
frustate, o la modestissima quantità di dolore, che come si riconosce naturale
[con naturalezza, ovviamente, comprensibilmente] E’ PIACERE per la padrona,
godimento… eccitazione. Eccitazione [e piacere] che credo provino anche i muri,
tanto è scontato e giustificato. Al di fuori degli protocolli ufficiali,
intrisi di perbenismo sociale, che si fanno norma, e morali. (per cui detti
aspetti li vivono legalmente solo i prediletti del potere - i notabili di Salò, e fuori dal film, sbirri e carabinieri.
Carcerieri. - vedi Saba Sardi in La Perversione inesistente, ecc).
Perché, al contrappunto, avrei amato
riposare, o rimanere silenzioso o raccolto sul mio, sulle emozioni, sull’apertura
nei confronti della Padrona, che –nonostante le mie incapacità- si era mossa ed
espansa, in virtù di Lei, e della sessione.
Ebbene, nonostante questo (e questo
tutto vero), ero felice di potere essere per terra immobile, a far nulla, praticamente sotto al Suo letto, mentre Lei
leggeva, non so neppure cosa, adagiata e silenziosa. Comoda e silenziosa.
Indifferente (per lo più indifferente) alla mia presenza. Ma consapevole di
questa, anzi, esigente a questa. Per un Suo piccolissimo piacere. Per la
porzione piccolissima di piacere che questa poteva darLe (oltre alla serata, al
Suo Piacere goduto, alla lettura che le piaceva, alla comodità delle coperte
calde e del silenzio circonvicino).
Bellissima cosa questa (per inciso): l’indifferenza
della Padrona, unita con il piacere (tutto colto e tutto personale, tutto
goduto), della presenza inutile e pressocchè immobile dello schiavo, che solo… non deve disturbare. Bellissimo cosa
essere considerato come proprio, come un PROPRIO OGGETTO (più o meno)dalla
PADRONA, però VOLUTO… voluto perché dà piacere, puro personale Dominante
piacere, averlo.
Indifferenti che lui non possa far altro
che con la propria presenza, servire il Piacere.
E che questo impedisca a lui di fare
qualsiasi cosa. Privato di ogni cosa, di fare qualsiasi cosa solo… per servire
(ed in piccolissima quantità o dose) il Piacere della Padrona. Tutto di Lei, e
proprietà TOTALE in maniera spudorata e immorale. Amorale. In cambio di nulla,
magari neanche di un gesto d’attenzione.
E lì si applica quella che il Castiglione nel Rinascimento
battezzo con il termine di sprezzatura, ove “la regula
della grazia infatti prevede che ogni
arte venga celata e che, anzi, si dia attraverso la sprezzatura un'impressione
di " naturalità" [1].
Da un lato sentivo il freddo, la coperta
troppo corta che non mi consentiva di evitare le piastrelle con i piedi e con le
braccia, l’essere in uno spazio ridotto con la visione ridotta allo spazio
sotto i radiatori… l’essere fra lo svenire e il sogno, e la fatica dello star
desto (o ridestarmi?); il chiedermi che senso o meglio che valore avesse l’essere
solo lì solo ad esistere… quando avrei potuto più utilmente far qualsiasi cosa,
ed anche la leggera sofferenza che veniva da tutte queste cose assieme (forse
il freddo soprattutto… e d’altra parte è ridicolo uno schiavo sotto una
coperta, o in guanti e berretto di lana..-)
E dall’altra… ugualmente il piacere e la
gioia di farlo per la Padrona, di servire il Suo Piacere.
Di servire Lei, di essere Suo schiavo. E
mi ripetevo la fortuna di potere essere in quella stanza, piuttosto che in
qualsiasi altro posto al mondo. Condizione niente affatto garantite ed anzi,
per quanto ne posso sapere io, che non è dato mi venga riproposta.
E
“sofferenza”
(rammarico, dubbi… “inutilità” e scomodità) ed apprezzamento (o gioia, o gratitudine per la bontà e il Piacere
della Padrona, ecc) erano perfettamente veri (e completi nella loro parte) e
perfettamente compresenti, senza che uno togliesse spazio o cassasse l’altro,
senza che l’uno limitasse (o negasse) la presenza, piena presenza all’altro,
che vi convivevano pienamente (e perfettamente) senza intrecciarsi .
Senza confondersi. Con chiari i
rispettivi ambiti, e competenze.
In questo (si potrebbe dire?) il Bdsm: “soffrire”
(anche se in questo caso per modo di dire. “essere a o nel disagio”) senza che
questo tolga il piacere di dar piacere alla Padrona, che “supera” la propria sofferenza,
dolore umiliazione disagio. Per il Suo Piacere, per Lei .
In questo (ed immagino il piacere che
dall’altra parte ne possa venire, se ne possa trarre –oltre che dal fatto di crearla
IN SE’… di manipolarla.. di possederla. La
formazione del dolore, della sofferenza, della manipolazione della carne –e non
solo- per e nel proprio piacere…), un elemento (o l’ultimo elemento) è
paradigmatico, nell’assoluto –apparente- conflitto frontale, contraddizione
irrisolvibile, irremovibile, su chi o cosa è più potente, fra i due. Essendo
fino alla fine a pari.
E negando l’uno la legittimità, s enon
la pienezza, all’altro.
Che quando sono poi andato a dormire, ai
piedi del letto, ero completamente bagnato…
D’eccitazione, d’emozione.
De facto questo risolve la questione.
Per quanto scomodo o insensato sia.
Per quanto morissi di freddo (per dire),
per quanto la Padrona si beasse nella sua lettura.
Per quanto fosse ridicolo, e
riprovevole, poco eccitante fosse (a quell’ora) e in quelle condizioni,
guardare le basi dei radiatori.
Per quanto bramassi –legittimamente- un
letto, e la giornata fosse stata faticosa.
Nonostante avessi lavato i piatti, e “meritassi”
un po’ di ricreazione.
E per quanto avesse fatto, ancor di più
mi sarei per Lei emozionato, anche se non manifestava
NESSUN Piacere.
E qui finisce la serata.
Andato a dormire (mai “a letto” sarebbe
stato termine più inopportuno) ho penato tutta la notte per il freddo (alla durezza
del pavimento comincio rapidamente ad abituarmi –a ri..abituarmi, più
velocemente della scorsa volta.), che non mi lasciava dormire, anche cercando
di coprirmi con il sacco in diagonale, per farlo diventare lungo al necessario,
e tentarel’impossibile compito che non diventasse troppo stretto sulle spalle,
e il torace (che si ostinano ad essere voluminosi).
In tutto questo ho fatto un sogno:
Eravamo con la Padrona in un qualche luogo, tipo fuori da una qualche osteria. Gente,
andava e veniva. Ed in questo e intrecciato case in restauro e cantieri, lavori
a mezzo e muri da intonacare.
In questa situazione molto scombinata
(casette con giardinetti davanti, ed agavi, senza serramenti (forse per il
freddo?) e situazioni locative precarie, più case (casette?).. ad un certo
punto la Padrona parlava con uno, uno sul tipo del quasi migliore “spasimante”,
della F., dell’autunno scorso; un tipo all’apparenza interessante.
Come si fa.. fuori dalle osterie.
E un po’ si sorridevano, un po’ si
compiacevano, un po’ riconoscevano interessanti (le chissà quali scemenze) le
cose che si dicevano.
Dopo pochissimo la Padrona viene da me,
come gironzolando fra una chiacchera e l’altra e mi dice, o almeno in parte mi
ordina: “Tu vai a casa. Io adesso vado a … farmi un giro con lui” si gira e
senza dirmi altro (e aver dato quasi modo d’avermi parlato) ritorna grosso modo
dov’era prima.
Io vado a casa.. e l’aspetto. Tutta la
notte l’aspetto, dormendo male.
Al venir giorno vado verso la sua camera
e trovo la porta aperta, ed il letto vuoto. Non è tornata.
Verifico le possibilità che si sia
fermata a dormire da qualche amica, per scartarle poi tutte. E’ assolutamente
non plausibile, oltre che non probabile. Si è fermata di sicuro da lui.
Ora, non essendo la F., è assolutamente
improbabile che si siano sbronzati fino a cadere l’una addormentata sul divano,
l’altro lungo le scale o sul tappeto.
In tutti questi pensieri… una forma di
disagio (di dolore?) di dispiacere… piena dispiegata e naturale, ragionevole,
ed INSIEME una comprensione e circa gioia, o felicità o quasi felicità, per il
SUO PIACERE (ma non di estranea o in maniera altruista, ma ) DI PADRONA, a cui
riconoscevo istantaneamente (e fino al midollo..) la possibilità ed il piacere
di “divertirsi”. O di fare ciò che voleva. Ciò che le dava piacere. Con
chiunque lei avesse riconosciuto come tale, o come adatto.
Ed era così forte e sincero il
rammarico, la risposta di rammarico, spontanea (e forse non giustificata..) e
nel contempo il riconoscervi la gioia, in contemporanea, per la Padrona e per
essere Padrona delle Padrona.. da lasciar stupiti.
Intensissime e chiare entrambe, e non
una che veniva prima e l’altra dopo (o costruita o dedotta dopo) ma entrambe
che facevano “da padrone” in me, ed io che le lasciavo accadere, mi lasciavo
attraversare, come schiavo di fronte alle cose, alle scelte ai piaceri di una
Padrona. Soffrendole, servendole. Soffrendola, servendola. In tutto questo c’era
qualcosa di bellissimo (forse il Suo piacere -?-) che mi metteva in uno stato d’animo
intenso e leggero, intenso e pieno, come (scioccamente dirlo) realizzato: era ciò che doveva essere (infine):
lei con il piacere di essere Padrona, io suo schiavo.
Stato d’anim,o/emozione che è rimasta fin
ben dopo il risveglio. Diciamo 3 o 4 ore. Assolutamente immotivata (ben mi
rendevo conto che era stato un sogno… notturno) ma che indifferente alle
giustificazioni… e alle ragioni, concluse, permaneva.
Come “un bel sogno”…
Ed anche lì, come dicevo all’inizio,
dolore e sofferenza ed insieme gratitudine (per la Padrona), gioia, ebbrezza o
fascinazione, eccitazione. Essere schiavi…
[1]
SPREZZATURA
Riferimenti bibliografici
Giulio Ferroni, "Sprezzatura" e simulazione, in La Corte e il "Cortegiano", a cura di C. Ossola, Roma, Bulzoni, 1980.
Edoardo Saccone, "Grazia", "Sprezzatura", "Affettazione", in Le buone e le cattive maniere. Letteratura e galateo nel Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1992.
La
sprezzatura è la qualità di chi compie un'azione in maniera disinvolta, con
noncuranza. Per questa nozione, appare pertinente il richiamo al concetto
oraziano di mediocritas - categoria
stilistica e comportamentale - intesa come laboriosa conquista di un equilibrio
difficile, di un'eleganza che rifugge dall'affettazione e che nasconde lo
sforzo. È proprio con l'aurea mediocritas di Orazio (esecuzione
dell'assioma secondo cui "in medio stat virtus": "La virtù sta
nel mezzo, tra due opposti estremi, entrambi viziosi") che la sprezzatura,
principio della retorica antica, diventa cifra antropologica, valore globale,
totalizzante, ponendosi come archetipo della "regula universalissima"
della grazia di Baldassarre Castiglione.
Correlata alla categoria - negativa - dell' affettazione e diametralmente
speculare ad essa, la sprezzatura è categoria positiva elaborata da
Castiglione, che nel Libro del Cortegiano ne fa la principale caratteristica
formale della grazia: "Questa virtù adunque contraria alla
affettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltra che ella sia il
vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento" (I
28). La categoria della sprezzatura è lessicalmente coniata da Castiglione, che
vuole così definire la forma propria, e generale, del comportamento del
cortigiano: "e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa
sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto
senza fatica e quasi senza pensarvi" (I 26). La sprezzatura può
essere ricondotta all'ambito semantico relativo al concetto aristotelico di eironeia,
"ironia", che nell'Etica nicomachea si colloca sul
versante opposto dell'alazoneia, "vanagloria". La pratica
della sprezzatura può essere considerata affine all'arte della
dissimulazione che, come è nel caso dell'ironia, trae la sua forza da una
consapevole distanza fra essere e apparire. La regula della grazia infatti prevede che ogni arte
venga celata e che, anzi, si dia attraverso la sprezzatura un'impressione di
" naturalità": " somma disgrazia a tutte le cose dà sempre la
pestifera affettazione e per contrario grazia estrema la simplicità e la
sprezzatura" (I 40). I comportamenti del cortigiano, i gesti che
contraddistinguono il suo essere in corte, sono ispirati ad una simulata
spontaneità atta a nascondere ogni artificio: "e la grazia in molti omini
e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché
nei movimenti del corpo molti così la chiamano), con un parlar o ridere o
adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello,
per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?" (I 26).
Deriva
dal verbo sprezzare, derivato dal latino parlato expretiare
(composto da ex e pretium, "stima"), il quale
significa letteralmente "disprezzare".
Paola CosentinoRiferimenti bibliografici
Giulio Ferroni, "Sprezzatura" e simulazione, in La Corte e il "Cortegiano", a cura di C. Ossola, Roma, Bulzoni, 1980.
Edoardo Saccone, "Grazia", "Sprezzatura", "Affettazione", in Le buone e le cattive maniere. Letteratura e galateo nel Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1992.
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